LAST CALL | La penultima volta
La penultima volta
di Guia Soncini
Nel suo primo disco, uscito quando avevo sei mesi, Tom Waits imposta il genere che avrebbe continuato a praticare nei decenni successivi: cortometraggi fatti di versi di canzoni. In uno di quei testi, spera di non innamorarsi d’una sconosciuta. La vede in un pub, lei è plausibilmente bellissima, o almeno così ce la immaginiamo: lui non la descrive, né le rivolge la parola. Quarantasette anni prima della pandemia, Tom Waits era già bravissimo a fare tutto da solo.
L’ultima strofa della canzone uccide ogni speranza d’un lieto fine: la musica si abbassa, è l’ultima chiamata per fare l’ultimo ordine per l’ultima birra, si volta, lei non c’è più, chissà dov’è andata, e lui teme proprio d’essersi innamorato di lei – con la tigna che si riserva alle occasioni perdute.
Era il 1973, e chissà se Tom aveva sentito quella Mina d’otto anni prima: quella che, persa l’ultima occasione, giurava di non voler «pretendere le cose che non merito da te». Nel secolo successivo, siamo diventati meno disciplinati, più propensi a chiedere seconde chance, più consapevoli che ogni ultima chiamata è in realtà la penultima.
Probabilmente ci ha rovinato l’on demand: non dobbiamo più essere davanti al televisore quando va in onda qualcosa, se non ce lo vogliamo perdere; né trovare il telefono a gettoni libero, se vogliamo chiamare il grande amore finché è a casa. Tutto è a disposizione sempre, il paese dei balocchi è tutt’attorno a noi, e non si può pretendere disciplina da noialtri burattini viziati.
Che si tratti dell’ultima birra (mica questo locale sarà così rigoroso da non servirmi fuori orario, suvvia), dell’ultima promessa di cambiare vita (ne usciremo migliori, ma non proprio oggi: magari la settimana prossima), dell’ultimo amore o dell’ultimo confino per evitare i contagi o dell’ultima volta che giuriamo che questa è l’ultima volta – ma è sempre la penultima.