WHAT'S NEXT | interactive eXperience
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«Think you’re escaping and run into yourself. Longest way round is the shortest way home».
James Joyce, Ulysses
di Marco Accordi Rickards
Osservare quel che comunemente chiamiamo videogioco è una raffinatissima trappola per l’intelletto, tanto più efficace quanto più crediamo di essere cultori e padroni di quello strano, sgraziato oggetto, condannato alla eterna sospensione tra reale e virtuale… come se ciò avesse ancora un senso, peraltro. Il fatto è che il medium interattivo si mostra spesso come una sorta di parvenu, nato giocattolo elettronico sulla base di arditi esperimenti tra anni Cinquanta e Sessanta e poi arricchitosi vertiginosamente, con l’esplosione industriale globalizzante dell’epoca Atari, negli Stati Uniti di fine anni Settanta, quando un uomo di nome Nolan Bushnell, un po’ imprenditore, un po’ designer, un po’ pirata, rese il gaming elettronico una delle forme di intrattenimento più popolari, pervasive e virali, prima in pubblici locali e poi nelle nostre case, dando il via a una rivoluzione digitale tanto anarchica quanto irreversibile.
Quell’oggetto misterioso etichettato come game era in realtà sin dalle sue origini qualcosa di proteiforme, difficilmente inquadrabile e comprensibile, perlomeno facendo uso dei nostri tradizionali strumenti interpretativi. Necessariamente legato a doppio filo alla tecnologia dei computer, corpo del quale l’opera interattiva ha bisogno per incarnarsi ed essere, si trasforma e cambia con una velocità che nessun altro prodotto culturale conosce, e come bene osservava Mary Shelley nel suo Frankenstein, «Nothing is so painful to the human mind as a great and sudden change». Inoltre, il videogioco utilizza e assimila in sé ogni forma espressiva: il testo, l’immagine, il suono, per operare una sintesi ricombinante grazie a un formidabile reagente, il suo personalissimo quid pluris. Che cosa? Ma è chiaro: l’interattività. Eccolo, l’ultimo e più temibile inganno! Questa nostra necessaria e richiesta partecipazione viene vista a tratti come presunta integrazione creativa, e quindi come negazione di artistica autorialità, altre volte come pistola fumante per asserire la natura superficialmente ludica (e solo ludica) di qualcosa di troppo sfrontato per stare nel salotto bene delle forme culturali. Doppiamente assurde, queste asserzioni: l’una poiché non comprende che l’essere un’esperienza interattiva è esattamente la cifra stilistica di una nuova arte che non è fatta di brandelli di altre arti (una colonna sonora, un testo, una concept art, una performance attoriale…), ma che è la fusione di linguaggi ripensati e sfruttati in funzione interattiva, in un mondo simulato tanto virtuale da essere reale; l’altra perché il chiassoso scorrere di un infinito fiume di denaro non può assordarci al punto da non scorgere temi, provocazioni, spunti ed emozioni presenti tanto nelle avanguardie indie tanto nei gangli dorati del mainstream.
Già, la grande industria dell’intrattenimento di massa del gaming, quella delle Nintendo Switch, Microsoft Xbox, Sony PlayStation e PC Steam, del gioco online e mobile, delle realtà virtuali ed aumentate, e di tanti piccoli grandi big bang come l’esport, la gamification, gli applied game e, oggi più che mai, il (misterioso) metaverso, idea platonica calata tra di noi dalla fantascienza di Neal Stephenson, che nel 1992 coniò questo termine nel caposaldo cyberpunk che è il suo Snow Crash. Quella del videogioco è un’industria monstre che, nel 2022, ha generato 184,4 miliardi di dollari di fatturato globale, sebbene abbia per la prima volta registrato un calo del 4,3% rispetto all’anno precedente. Numeri certamente impressionanti, specialmente se si aggiunge il dato relativo ai 3,2 miliardi di videogiocatori nel mondo: non possiamo poi stupirci se il dito di un bambino cerca di interagire con la copertina di un vecchio fumetto quasi fosse il touch screen di un tablet o se Pikachu, il più famoso dei Pokémon, è da diversi anni più noto e riconoscibile del vecchio Topolino di Walt Disney. Il punto è che oggi il virtuale non è più qualcosa che si contrappone al reale, ma che della realtà è parte integrante, in sempre più armonica sincronicità. Nei videogiochi o negli altri spazi interattivi noi ci incontriamo, dialoghiamo, litighiamo e ci innamoriamo, e ciò non è diversamente reale rispetto a quanto accade(va) in una piazza o in un pub.
I numeri, però, sembrano fatti per spaventare. Specie quando si riferiscono a fenomeni che sfuggono in tutto o in parte alla nostra comprensione, perché fuori dalla comfort zone del nostro vivere quotidiano. Numeri così immensi, poi, sembrano mettere in dubbio i nostri paradigmi culturali: come può un medium così acerbo e indisciplinato mettere alle sue spalle i giganti sui quali ci siamo formati? «For us who understand life, figures are a matter of indifference», ammoniva saggiamente Antoine de Saint-Exupéry nel Piccolo Principe, ma, per l’appunto, occorre conoscerlo, il videogioco! In Italia, intanto, lo scenario è in evoluzione. Oltre 2 miliardi di euro di fatturato annuo e 15 milioni e mezzo circa di videogiocatori: i dati, elaborati da IIDEA, l’associazione nazionale di categoria, e riportati nel rapporto di Fondazione Symbola sulle Industrie Culturali, fotografano un Paese nel quale il gaming è un fenomeno di massa ed economicamente assai rilevante; un mercato europeo assai ricco dove, tuttavia, la produzione ha faticato maggiormente a prendere piede, rispetto ad altri territori. Come dire: in Italia si vendono molte opere interattive, ma, in proporzione, se ne producono poco, il che è un peccato, considerando quanti grandi talenti tricolore operano nel settore del gaming a livello internazionale. Solleva constatare che, però, nell’ultimo anno si sono intensificate le azioni e le misure, anche di tipo istituzionale, volte ad agevolare la crescita della games industry italiana. A interventi governativi come aver creato dei fondi dedicati alle opere interattive affiancati a quelli per le opere cinematografiche nella Legge Cinema del 2016 o aver attivato il tax credit anche per i videogiochi, si deve aggiungere la nascita di programmi di accelerazione di impresa nell’ambito del game development come Cinecittà Game Hub a Roma, Game Farm a Bologna e Quickload a Torino, nati anche con il sostegno degli enti locali regionali.
In definitiva, lo scenario del gaming rappresenta oggi una straordinaria sfida, tutta declinata attorno alle parole chiave della pluralità e della valorizzazione della diversità: ciò che per milioni di ragazze e ragazzi di ogni età è un motivo di svago, rappresenta al tempo stesso una alternativa al conformismo passivo e alla staticità delle espressioni artistiche tradizionali. Il game designer è il contemporaneo demiurgo di nuovi e infiniti mondi, da plasmare con l’interattività affinché sappiano accogliere questa moltitudine inquieta e intergenerazionale che tutti quanti, insieme, rappresentiamo.