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Mappare l’Antropocene
di Luca Tremolada
Considerate John Snow, non quello del “Trono di Spade”, parliamo di un personaggio realmente esistito, un medico britannico che visse alla fine dell’Ottocento a Londra. All’epoca, la capitale del Regno Unito era flagellata dal colera. Nel 1854 si diffuse una violenta epidemia a Broad Street, una via del quartiere di Soho, a causa dell’inquinamento dei pozzi pubblici. In quegli anni si credeva che il colera si diffondesse come un virus nell’aria, i germi e i batteri non erano stati ancora scoperti e neppure il ruolo dell’acqua inquinata come veicolo di infezione. John Snow ebbe l’intuizione che oggi è la pratica dei giornalisti di dati: geolocalizzò l’informazione. Più semplicemente disegnò una mappa dei quartieri di Londra, segnando in ognuno i morti e i contagiati. Si accorse così che il colera colpiva senza distinzione quartieri ricchi e quartieri poveri, zone fortemente popolate e strade più desolate. Con un paio di eccezioni, le birrerie intorno alle quali c’era una sospetta bassissima mortalità. E un luogo preciso: la pompa pubblica di distribuzione dell’acqua di Broad Street. Qualcosa di anomalo avveniva nel luogo dove gli abitanti del quartiere si recavano per raccogliere l’acqua da bere. In fondo, bastava fare due più due per trovare un nesso. Solo molti anni dopo, però, la mappa di Snow fu interpretata in modo corretto e aiutò gli scienziati a ipotizzare la dinamica epidemiologica del colera.
Ecco perché per un data journalist moderno il 1854 è come l’anno zero: tracciare i dati su un foglio con il tempo è diventata la metafora più potente dell’urgenza dell’uomo di misurare il suo impatto sull’ecosistema. Quasi vent’anni dopo quella data arriva la prima formulazione dell’Antropocene da parte del geologo Antonio Stoppani. Quella che è stata definita “l’era dell’uomo”, la nuova epoca geologica caratterizzata dall’impronta dell’essere umano sull’ecosistema globale, nasce proprio come il combinato disposto degli effetti di due movimenti tecno-tellurici. La digitalizzazione dell’informazione che ha trasformato il sapere in bit e byte. E l’avvento della prima era di internet, quella degli anni Novanta libera, selvaggia e intimamente hippy come i programmatori californiani che l’hanno costruito. Come nella casa degli specchi di un Luna Park i dati sono diventati un bene aperto, inclusivo e pubblico. Una traccia di quello che siamo e che abbiamo fatto. La consapevolezza culturale della nostra impronta digitale è diventata qualcosa di reale, globale e misurabile. Abbiamo così fotografato con una mappa che il 75% della superficie terrestre è occupata dall’uomo e dai suoi artefatti. Che il 40% della Terra è coperta da coltivazioni. Che il 50% delle foreste sono andate perdute.
Ma i dati ecologici per la comprensione degli ambienti culturali e sociali in cui viviamo non sono sufficienti. Servono nuovi indicatori, nuovi saperi e più trasparenza. L’epidemia del Covid-19, in fondo, ha accelerato un processo che era già in atto. Per la prima volta, con chiarezza, ci siamo accorti che sul terreno dei dati si confronteranno le prossime battaglie politiche, ecologiche e finanziarie. L’Antropocene, la nuova era geologica di cui ancora poco sappiamo, grazie ai dati è qualcosa di immateriale, digitale e accessibile. Che può essere messo su mappa per prevedere o forse prevenire il futuro.