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900+100. A Milano nuova vita al Museo del Novecento
Inaugurato nel 2010 nel palazzo dell’Arengario, in una posizione strategica, davanti al Duomo, il Museo del Novecento è un museo della città, nato dalle generose donazioni di artisti e collezionisti. Un museo, con una storia molto milanese, che attraversa il secolo breve, dal Futurismo all'Arte Povera, e che oggi si prepara a raddoppiare gli spazi espositivi. Per entrare nel nuovo millennio.
By Francesca Molteni
Aperto, osmotico, trasparente, un museo che si offre, perché tanto ha ricevuto. Bello perché in rapporto con la città. Così lo racconta Gianfranco Maraniello, direttore del Polo Museale Moderno e Contemporaneo di Milano – cioè di cinque istituzioni: Museo del Novecento, GAM Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Morando, Casa Museo Boschi Di Stefano e Studio Museo Francesco Messina.
FM: Nuovi progetti, grandi cambiamenti, il Museo del Novecento è in una fase di trasformazione. Quali sono i principali sviluppi?
GM: Lavorare sullo spazio del Museo del Novecento significa tener conto di quello che accadrà con l'estensione al secondo Arengario. Immaginare, quindi, quale sarà la sua forma compiuta. Il Museo attuale diventerà uno spazio di collezione permanente che avrà come punto d'inizio e come conclusione due polarità del secolo breve: si parte con la speranza, l'idea di incidere sul mondo, quindi l'idea dell'Avanguardia, e il Futurismo, che è già la parte più compiuta delle collezioni e ha una forte connotazione milanese, pur essendo un fenomeno internazionale, e si conclude con una data simbolica per il Novecento italiano, e certamente per questa città e per l'arte di questa città: il 1993, l'anno in cui a Milano succedono tante cose – l’attentato di matrice mafiosa terroristica al PAC, il fenomeno conosciuto come Mani Pulite, ma anche la nascita del partito di Berlusconi. Cultura, politica, società, media, quindi una storia molto rilevante, che nell'arte trova rappresentazione in opere importanti nelle nostre collezioni. Il secondo Arengario sarà invece il luogo delle mostre, della contemporaneità, anche in corrispondenza di spazi più adatti per esposizioni temporanee, proprio per la loro flessibilità. Il recupero dell'architettura mi sembra un tema cruciale anche per l’Arengario, per ritrovare la dimensione quasi osmotica tra l'interno del Museo e l'esterno.
Quindi stiamo preparando questo trampolino, letteralmente si tratta di una passerella, per saltare nel secondo Arengario, e metaforicamente nel nuovo millennio, perché questa è anche l'immagine di Milano, una città internazionale proiettata nelle sfide della contemporaneità. In questo senso stiamo immaginando anche la ridistribuzione dei servizi, cosa succederà quando si avrà una grande caffetteria su piazza Duomo al pianterreno, con sale dedicate alle attività. Sarà soprattutto un luogo identitario di ritrovo, di pratica di arti.
FM: In questo percorso, chi sono gli interlocutori? I costruttori di sogni che ne rendono possibile la realizzazione?
GM: Noi siamo integralmente una parte del Comune di Milano, siamo già in una dimensione pubblica. E questo significa anche mettersi a disposizione dell'ascolto di una città che si sta dimostrando molto generosa. Stiamo portando avanti un progetto importante per le diverse abilità, quindi percorsi per ipovedenti, per disabilità, o capacità cognitive non standardizzabili nella tradizionale visita di museo. E poi stiamo trovando nuovi interlocutori anche in relazione alle nuove progettualità. In realtà ci siamo posti la domanda: che cos'è che caratterizza l'arte del Novecento? Il Novecento è certamente il secolo in cui l'arte non si realizza più soltanto come opera, come forma compiuta, che si condensa in una scultura o in una pittura. L'arte non sta più soltanto dentro il perimetro di una cornice o nel basamento. Il Novecento è il secolo in cui l'arte si presenta in mostre temporanee, in ambienti, in dialoghi tra opere e spazi, in un rapporto peculiare con il tempo e con gli ambienti dell'esposizione, e anche nella relazione di opere tra di loro. E allora l'idea è di dare sempre più spazio alle voci del Novecento, lavorando con gli archivi, con le fondazioni, con chi custodisce le memorie, ma anche con le gallerie d'arte che hanno storie importanti, soprattutto in una città come Milano. E quindi ricostruire le vicende, ritrovare le trame, e anche la connessione e il portato culturale di tutto ciò. La sfida è creare una piattaforma condivisibile e partecipata, con tanti partner. Poi si tratta anche di costruire la storia a venire, che è la grande proiezione del secondo Arengario, e non a caso si porta avanti questo progetto con il titolo “900 più 100”, pensando al secolo che stiamo vivendo.
FM: Come si mette in evidenza il rapporto con la città, nel senso del dialogo ma anche dell'architettura?
GM: Il 4º piano del Museo è una specie di osservatorio, da una parte del Duomo, della Galleria, e dall'altra di un'architettura anche moderna, quella della Torre Velasca – è anche questo il senso della ormai nota passerella, l'idea di essere sospesi sulla città e quindi di farne un osservatorio. La forza di questa architettura è proprio l'essere un punto di osservazione e anche di permeabilità dello sguardo. Penso a quant'è bello d'estate, al tramonto, vedere il marmo di Candoglia del Duomo con il suo riverbero rosa che entra nella Sala Fontana, e non mi stupisco che sia il posto più adatto per i selfie della città. Credo che vada accentuato questo aspetto, e che l'allestimento delle opere sappia avere un rapporto organico con l'interno dell’edificio, ma anche con l'esterno. È l'idea che il Museo possa dare continui segnali di quello che si ritrova anche in città. Perché il museo svolge sempre una funzione esemplare, cioè di esempio, non può esaurire la storia dell'arte, deve dare modo di avvicinarla, perché poi ognuno nella propria esperienza trovi l'arte nella vita quotidiana, nella vita pratica, nelle esperienze che compie altrove. Il museo è uno spazio artificiale che sintetizza e in qualche modo intensifica la percezione dell'arte ma non la esaurisce. Pensare che il Museo rinvii ad altro da sé, è la mia missione.
FM: E il tema dell'allestimento che, da un certo punto di vista, il nuovo progetto nega?
GM: Tutti gli artisti con cui ho lavorato mi hanno raccontato dell'importanza di realizzare mostre che fossero in rapporto diretto con lo spazio dato, e anche con le opere degli altri artisti. Per cui si uscirà progressivamente dal perimetro del quadro – quello che poi idealmente la cornice inventa nel Seicento europeo, un'invenzione culturale tutto sommato recente e anche limitata geograficamente, e che l'arte contemporanea ha imparato a smantellare, facendoci scoprire invece l'arte come gesto, come spazio, come relazione, come tempo. E questa esemplarità dobbiamo esibirla anche nella modalità dell'allestimento, perché ci porterà poi ai tre grandi volumi espositivi, delle piazze al coperto ma in realtà anch'esse trasparenti, con grandi vetrate, che saranno i luoghi delle mostre temporanee. E allora dobbiamo saper costruire questa possibilità di incontrare l'arte e di farne percepire il continuo sfondamento, la continua eccedenza del suo confine, che poi è una metafora dell'arte.
FM: Che rapporto si può attivare con il design, l'altra grande colonna che porta questa città nel mondo, e anche molto mondo a Milano?
GM: Ci sono confini sempre molto labili tra le discipline. È difficile capire se siamo nell'ambito del design o dell'arte, e forse non è utile essere così decisivi, se stiamo parlando di opere in collezione penso a Enzo Mari, a Fausto Melotti, per certi versi, e penso a certe espressioni del Futurismo. Però al tempo stesso ritengo che sia fondamentale in questa esplosione di energia che è la città di Milano porsi anche come interlocutori molto facilmente riconoscibili. Abbiamo bisogno di una chiarezza di posizionamento, proprio per essere dei riferimenti e anche per non raddoppiare le funzioni. Allora è chiaro che quando si progetta un museo come il Museo del Novecento, io non posso non tener conto che, nella stessa città, ci sono anche importanti fondazioni private, come la Triennale e l’ADI Museum, che fanno un lavoro straordinario, ma noi dobbiamo saper fare cose che quelle fondazioni non possono fare, a partire appunto dalla realizzazione delle collezioni, dalla mission stessa del Museo.
FM: E l’arte contemporanea nel Museo?
GM: Noi molto onestamente non siamo ancora nelle condizioni per presentarci come produttori di arte contemporanea. Al momento, ma solo al momento, siamo un museo collegato alle funzioni più votate alla conservazione del patrimonio, non siamo gli attori principali di questo tipo di ricerca. Lo fanno come indirizzo chiaro progettuale fondazioni come la Fondazione Prada, Trussardi, Hangar Bicocca, le tante gallerie private. E allora il nostro tema è quello semmai di diventare, in attesa degli spazi del secondo Arengario, riferimenti importanti per il nostro carattere istituzionale. Cioè non la ricerca e basta, che non è poco, ma l'idea che questa sia una dimensione valoriale all'interno della società. La differenza tra quello che fa un museo e quello che propone un soggetto come una Fondazione o una galleria è che quello che facciamo noi in realtà dovrebbe interessare appunto anche chi al museo non ci va. Ho sempre pensato che i musei devono essere importanti ancor più per quelli che non sono interessati all’arte. Il nostro compito non è rivolgersi agli interlocutori naturali, è capire che quello che facciamo ha un senso anche per chi non è interessato.
FM: Ecco in tutto ciò che spazio ha il tema del digitale, del coinvolgimento del pubblico?
GM: Non possiamo non interessarci, perché il digitale ha già, come dice Francesco Casetti, rilocato anche i media tradizionali, ne siamo già permeati. In ambito anglosassone si parla del fenomeno, importantissimo nei museum studies, della mediatization, che non è più come i musei utilizzano il digitale, ma come i musei comprendono di essere immersi in un ambiente digitale. Sappiamo che la comunicazione più efficace è quella che i visitatori stessi fanno, rimbalzando con i loro strumenti la loro esperienza al museo. Credo che più che dire quali strumenti adotteremo, si tratta di capire qual è l'atteggiamento che dobbiamo tenere. Due sono le cose da avere sempre ben presente. La prima è che dobbiamo pensare a come diventare non soggetti ma oggetti della comunicazione. L'altra è considerare il digitale non come uno strumento di comunicazione ma come un territorio di azione. In un certo senso si tratta di pensare alle possibilità offerte dal digitale per creare spazi non solo di documentazione, di archiviazione, ma addirittura di produzione culturale.
Ho sempre pensato che i musei devono essere importanti ancor più per quelli che non sono interessati all’arte. Il nostro compito non è rivolgersi agli interlocutori naturali, è capire che quello che facciamo ha un senso anche per chi non è interessato.
—Gianfranco Maraniello